Descrizione
Massimo Morasso, Kafkegaard - Lamantica 2018
Il mio non è un libro su Kierkegaard, e nemmeno un libro su Kafka. Eppure parla di Kierkegaard e di Kafka, di angoscia e disperazione.
In Kafkegaard sono gli interrogativi esistenziali dell’io narrante alle prese con l’idea di scrivere l’ennesimo saggio su quei due grandi maestri otto-novecenteschi dell’esperienza spirituale a dettare il passo eccentrico dell’azione; un passo così “libero” dalle pastoie del buon senso comune che le fidanzate di Kierkegaard e Kafka possono trovarsi a convivere con naturalezza con la famiglia, nonno compreso, del protagonista… che sono io, l’io scrivente, va da sé; ma che lo sono, quell’io, nella forma, in me, dell’altro da me - come capita ovunque nella pentalogia automitobiografica che mi sono messo in testa di scrivere (e che Lamantica si è messa in testa, bontà sua, di pubblicare per intero a partire da Fantasmata, il librino su spiriti e fantasmi che ha dato alle stampe l’anno scorso) anche per dire basta all’autobiografismo, e alle sue molteplici derive.
Qui, quell’io paradossalmente impersonale, quella funzione-Morasso, per così dire, porta a spasso i suoi centodieci lettori fra letteratura, filosofia e teologia, e letteralmente cammin facendo dà figura a un surreale mondo di mezzo dove convivono in difficile armonia pensieri e sentimenti chiamati ad arrovellarsi, pagina dopo pagina, snodo dopo snodo, intorno al sempiterno, indecifrabile mistero dell’esserci.
Come vedrà meglio degli altri chi, fra quei lettori, abbia sviluppato “intelletto d’amore”, i temi e i materiali del racconto non sono altro, in fondo, che quelli che nascono dalla riflessione sulla vita in sé, la “nuda” vita, e sulla carne che la patisce.
(Massimo Morasso)
Avverto oscuramente qualcosa. Una specie strana di spaesamento, una labirintite interiore.
Non so distinguere fra angoscia e disperazione, al contrario di Kierkegaard - quello spirito tagliente. Intuisco che quel qualcosa di estraneo, che mi turba più di un ectoplasma, ha a che fare con il divario che sento aprirsi fra me e un’altra parte di me. Il pensiero pensato (penso) che si accorge della presenza, in sé, di un impensato. Che è inconciliabile, e fa paura. La malattia mortale del pensatore-poeta. L’indistinto brusio che gli arriva dalle crepe del muro dell’ovvietà, come l’eco di un canto.
Mi dico: che angoscia. Quelle crepe nascondono un abisso, e questo abisso mi attrae.
Sono qualcosa, io? E se io non fossi, in fondo, che un «solido nulla», per dirla con Leopardi? Eppure, qualunque cosa - o chiunque - o qualunque “nulla” io sia, so che potrei annullare il mondo per forza di volontà, e che potrei anche, però, renderlo vivo, e significativo.
(Estratto da M.M., Kafkegaard)
Massimo Morasso è nato a Genova nel 1964. Germanista di formazione, fra tante altre cose ha pubblicato il ciclo poetico Il portavoce (scritto nel 1995-2006, e dato alle stampe in più raccolte e plaquettes fra il 1997 e il 2012), due libri apocrifi sull’attrice Vivien Leigh (2005 e 2009), una monografia su Cristina Campo (2010) e una sul pittore William Congdon (2010). I suoi ultimi libri editi sono Il mondo senza Benjamin (Moretti & Vitali, 2014), un ampio zibaldone metaletterario, il libro di poesia L’opera in rosso (Passigli, 2016), vincitore del Premio Gozzano 2017, e Rilke feat Michelangelo (CartaCanta, 2017), vincitore del Premio Catullo 2018. Con Lamantica nel 2017 ha pubblicato Fantasmata, il primo capitolo della Automitobiografia in cinque parti che prosegue ora con Kafkegaard.